Quanto inquinano le mascherine?

Negli ultimi due anni di pandemia le mascherine – e in genere i dispositivi di protezione individuale (DPI) – sono diventate una presenza quotidiana per milioni di persone. Non è quindi difficile immaginare che il loro utilizzo capillare abbia generato una quantità di inquinamento e rifiuti enorme.

Le stime ufficiali parlano di circa 3,4 miliardi di mascherine consumate al giorno nel mondo (3 milioni al minuto), una cifra incredibile anche solo da pensare. Secondo altre stime invece il consumo di mascherine si attesta su 129 miliardi al mese. Solo in Asia ne vengono consumate 1,8 miliardi ogni giorno.

Queste mascherine sono in larga parte fatte di materiali plastici e il principale problema del loro smaltimento rimangono le microfibre di plastica (in particolare il polipropilene).

Si stima che oltre il 75% delle mascherine finisca direttamente in discarica, perché è impossibile riciclarle. E solo una singola mascherina può rilasciare in mare 173.000 fibre di plastica, e questo basta per capire l’entità dei danni che il nostro ecosistema dovrà subire. Alcune proiezioni parlano addirittura di quasi 5.500 tonnellate metriche di plastica in più nei nostri mari.

Solo nel 2020 sono finite negli oceani oltre 1 miliardo e mezzo di mascherine, e un DPI del genere impiega oltre 400 anni a dissolversi completamente, secondo studi recenti. Il danno prodotto è quindi incalcolabile e ne pagheranno il prezzo le generazioni future.

D’altronde il mercato mondiale dei dispositivi di protezione individuale è passato da un valore di 800 milioni di dollari del 2019 a 166 miliardi di dollari del 2020. E la necessità di questi dispositivi non si esaurirà nel breve periodo.

Una stima pre-Covid-19 stabiliva che ogni anno finivano in mare circa 8 milioni di tonnellate di plastica. Inutile dire che la situazione è ulteriormente peggiorata con la pandemia, che non ha fatto altro che complicare un problema già comunque rilevante. Insomma lo smaltimento della plastica era già dirimente e ora la pandemia ha semplicemente aggravato e ingigantito una questione già molto grave.

La situazione è talmente drammatica che si è coniato il neologismo “mask pollution” (inquinamento da mascherina) per definire questa particolare forma di inquinamento che ha invaso spiagge, città e mari, fino a diventare quasi parte integrante del paesaggio.

Purtroppo la pandemia da Covid-19 ha richiesto un improvviso aumento della produzione, ma in parallelo non è stato creato nessun protocollo per la tutela dell’ambiente e la gestione di questo rifiuto, che come ricordato in precedenza finisce nell’indifferenziato.

Alessandro Bratti, direttore generale dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), nel maggio del 2021, in un’intervista al quotidiano La Repubblica ha detto che in Italia: «Solo nel 2020 si sono prodotte tra le 150mila e le 440mila tonnellate di rifiuti in più». Ha inoltre sottolineato che: «Con le mascherine avremo a che fare per un bel po’ di tempo, almeno per un paio d’anni verranno prodotti questi quantitativi di rifiuti aggiuntivi», ma ha anche indicato una possibile strada per migliorare la situazione ovvero «bisognerebbe intervenire a monte, costruendo prodotti riciclabili.

Più in generale diversi studiosi suggeriscono di provare almeno a tamponare gli effetti di questo aumento di rifiuti introducendo bidoni specifici per la raccolta delle mascherine, o aumentando la produzione di mascherine biodegradabili. Ovviamente un’altra soluzione per diminuire il numero di mascherine da smaltire sarebbe quella di aumentare l’utilizzo di quelle in cotone o in altri tessuti riutilizzabili, garantendo però i requisiti di sicurezza ed efficacia previsti dalle normative a garanzia della salute umana e necessari per il contenimento dei virus.

Dunque la centralità dell’inquinamento e della tutela dell’ambiente è diventato il problema centrale dello sviluppo della nostra società. Prendersene cura dell’ambiente deve essere la priorità, anche in pandemia. Non esiste un’alternativa a tutela del futuro.

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